Festival Internazionale del Jazz
Edizione 1970
La storia del Pescara Jazz
Pescara Jazz 1970
La storia dei Festival di Jazz, in Italia, è più complessa di quanto potrebbe sembrare a prima vista, numerosi essendo stati i tentativi dei pochi organizzatori di agganciare ad una località turistica una manifestazione che, in realtà, ha un pubblico sicuro soltanto in poche tra le maggiori città italiane. Abbiamo così visto nascere e morire rassegne, anche ottime, a Sanremo, St. Vincent, Lecco, e, in pratica, sopravvivere soltanto Festival organizzati in città come Milano e Bologna che, ormai, hanno la certezza di un numero di fans che le mettono al coperto da qualsiasi rischio. Pescara ha tutti i numeri per riuscire dove altri sono falliti: dalla posizione geografica centralissima, al periodo balneare che le permette di sfruttare la favolosa riviera adriatica ed il turismo più massiccio d’Italia, dalla capacità organizzativa di pochi ma qualificati appassionati all’entusiasmo di un pubblico già abbastanza numeroso, dal saggio sfruttamento di manifestazioni concomitanti alla oculata scelta dei complessi partecipanti. Questa, soprattutto, è la nota positiva da sottolineare al giro di boa di questa seconda edizione: più che coraggiosa poteva dimostrarsi azzardata la selezione degli otto complessi invitati per la scorsa edizione ed un insuccesso avrebbe affossato le speranze e gli sforzi degli organizzatori. Aver creduto nella possibilità di sostenere lo sforzo organizzativo di una manifestazione effettivamente internazionale torna a vanto dei responsabili che, comunque, hanno contratto un grosso debito nei confronti del pubblico e della critica: quello di programmare manifestazioni in nessun caso meno valide della prima.
Questa seconda edizione – la positività è da ricercarsi nell’aver onorato la prima scadenza – presenta una scelta di musicisti e formazioni di altissimo livello, tali da costituire un richiamo per chiunque ami il jazz, tanto più che spiccano in cartellone nomi di jazzmen mai esibitisi in Italia, come Buddy Tate, e di un’orchestra celebre come quella di Duke Ellington, certo la più fascinosa nell’intera storia jazzistica. Qualcuno, probabilmente, accuserà l’organizzazione per aver limitato la rassegna ad un’epoca ed a stili ben precisi escludendo totalmente le nuove leve jazzistiche, quelle che stanno lottando tra le più incredibili avversità per tentare il rinnovamento di una forma musicale che minaccia altrimenti di incancrenirsi in un immobilismo deplorevole: noi però non ci sentiamo di condividere questa posizione, innanzitutto perché anche gli avanguardisti del “free” dopo l’esplosione iniziale ci sembrano invischiati nelle sabbie mobili di una libertà assai difficile da dominare ed infine perché un Festival non deve necessariamente essere una rassegna dei movimenti d’avanguardia e, conseguentemente, un rifiuto di quanto il jazz ha sino ad oggi creato, tanto più che è innegabile che il jazz tradizionale – inteso nel senso più lato del termine – vanta una schiera di musicisti di inarrivabile valore artistico.
A Pescara, dunque, saranno di scena alcuni tra i più noti alfieri del jazz classico: siano essi i benvenuti. “Buddy” Tate, un tenorsassofonista che si è imposto negli anni ‘30 soprattutto nelle orchestre di Andy Kirk, Lucky Millinder, Count Basie, presenterà una formazione di impostazione abbastanza moderna, collaudata da diversi anni di attività nel “Celebrity Club”. II leader è un musicista di ottima quotazione, anche se non raggiunge il livello di fuoriclasse, ma la sua partecipazione al Festival è importante soprattutto perché si tratta di un musicista pressoché sconosciuto per i fans italiani e, pertanto, la sua venuta colma una delle numerose lacune del nostro mondo concertistico. L’Europa sarà rappresentata dal chitarrista belga René Thomas e, anche in questo caso, si tratta di un personaggio non solo poco noto, ma anche sottovalutato in Italia ove, se la memoria ci assiste, lo ricordiamo ad un Festival a St. Vincent e in un paio di registrazioni discografiche: due occasioni, ovviamente, riservate a pochi fortunati e che non sono certo servite a Thomas per allargare il campo dei suoi sostenitori. Chi lo conosce è entusiasta di questo chitarrista che ha uno swing molto aggressivo ed una voce formidabile, grazie anche ad una Gibson modello Christian rarissima; inutile aggiungere che il chitarrista belga suona nello stile caro all’indimenticabile texano e senza concedere nulla alla platea. Per l’Italia torna di scena Nunzio Rotondo che da diversi anni ha limitato la sua attività a Radio, TV e sporadiche manifestazioni, di fatto uscendo da una scena che lo aveva visto trionfatore già negli anni intorno al 1950. Erano anni difficili quelli ed i musicisti italiani stentavano a comprendere la necessità di disancorarsi dal jazz tradizionale e dallo swing: proprio Rotondo dette il via al jazz moderno con un Quintetto dell’Hot Club Roma le cui incisioni sono ancora oggi un autentico godimento. Lo stile del trombettista romano ha subito nel tempo diverse evoluzioni ed oggi Nunzio, pur rifiutando il “free” e restando assai vicino al modello Miles Davis, riecheggia talvolta le esperienze più recenti della musica jazz nel più assoluto rispetto dei suoi canoni.
Gli americani sostengono la maggior parte del peso del Festival ed è giusto che sia così, dal momento che una rassegna non basata sulla esibizione di orchestre USA non avrebbe motivo di essere o, quantomeno, perderebbe ogni interesse; così a Tate si aggiungeranno Wilson, Terry, Manne ed Ellington. Teddy Wilson, come Hines, è un altro dei pianisti degli anni d’oro del jazz ripescato quando sembrava al termine di una carriera meravigliosa che lo aveva visto al fianco di alcuni tra i più prestigiosi jazzmen di tutti i tempi ed accompagnatore di cantanti come Billie Holiday. Il suo stile non ha subito variazioni e, fortunatamente, neppure la sua ispirazione e freschezza. Clark Terry è uno tra i più validi trombettisti delle ultime leve, quelle dalle quali dovrebbe uscire il successore di Gillespie e Davis: incantevole come sonorità soprattutto al flicorno, è stato chiamato a sostituire Lateef che in un primo momento avrebbe dovuto partecipare alla manifestazione. Non crediamo di errare sostenendo che chi ha guadagnato nel cambio è stato il pubblico che avrà modo di ascoltare un musicista interessantissimo. Shelly Manne giunge a Pescara diversi anni più tardi della sua epoca d’oro, quella della esplosione del jazz californiano, quella del delirio per le formazioni di Shorty Rogers e dello stesso Manne, quella dei film come “L’uomo dal braccio d’oro” che propagandavano in tutto il mondo la valentia del batterista della West Coast. Non che Shelly oggi suoni meno bene d’allora: è semplicemente scomparso il jazz californiano e praticamente con esso tutti i suoi esponenti, lasciando il passo ai musicisti di New York ed ai loro successori. Tuttavia Manne è ancora un inarrivabile specialista del suo strumento specialmente quando dalla batteria si pretenda di suonare al pari degli altri strumenti, cercando di porre in secondo piano la funzione ritmica per accentuarne le possibilità melodiche. Quanto sia difficile questo compito è facile intuire, anche per chi non abbia dimestichezza con il jazz, e basterà sottolineare come soltanto pochissimi drummers riescano talvolta ad esaltare la funzione melodica della batteria per comprendere quale sia il valore di Manne che in questo indirizzo non conosce rivali. La chiusura della rassegna a Ellington e non crediamo di dover aggiungere altro, anche perché Duke si è già esibito recentemente a Pescara: limitiamoci a ricordare che da quasi cinquant’anni l’orchestra – purtroppo priva dell’indimenticabile Johnny Hodges – rappresenta il miglior esempio di jazz orchestrale e prepariamoci a godere un concerto perfetto, come solo Ellington riesce a presentare.
Roberto Capasso
Pescara Jazz 70
BUDDY TATE ORCHESTRA
RENE’ THOMAS TRIO