Festival Internazionale del Jazz
Edizione 1973
La storia del Pescara Jazz
Pescara Jazz 1973
Dieci anni di concerti, cinque festivals, oltre duecento musicisti di classe internazionale chiamati a suonare per il pubblico pescarese, molti dei quali hanno fatto la storia del jazz, un pubblico che da pochi appassionati si è sempre accresciuto, rinnovato, fino ad arrivare al “tutto esaurito”, il jazz che da cenerentola è diventato una delle voci più importanti delle attività artistiche pescaresi: il bilancio è più che soddisfacente. Ma dieci anni, per un genere di musica che settant’anni fa non esisteva nemmeno, sono parecchi, e vale la pena di soffermarsi un momento a vedere che cosa è accaduto.
Agli inizi degli anni ’60 trionfava Coltrane col suo famoso quartetto, Bill Evans era il modello di quasi tutti i pianisti, e cominciava ad esplodere la bomba del “free” (Ornette Coleman aveva inciso “Something Else ” già nel ’58, ma non se ne era accorto quasi nessuno). Col “free” sono andati in crisi un po’ tutti, perfino Davis e Coltrane, perché da una parte continuare a suonare come si faceva prima del “free” non dava più soddisfazione, dall’altra il “free” si allontanava troppo da certe caratteristiche del jazz (il blues, il beat, ecc.) tanto che ai musicisti e al pubblico non sembrava più jazz, e si è creata l’etichetta “New Thing” proprio per togliere di mezzo la parola “jazz”. Con la “New Thing” il jazz ha percorso tutto il suo cammino culturale, ed è venuto praticamente a trovarsi sulle stesse posizioni della musica accademica contemporanea. Intanto stava per esplodere un altro fenomeno musicale di incalcolabile portata: il pop dei Beatles, il rock dei Rolling Stones. Non si trattava più di musica, ma di tutto un modo di vedere la vita: la gigantesca bottiglia molotov saltava con fragore nel ’68, e la sua fiammata andava dalla Francia all’America; la lunga eco di quella esplosione era la musica di Bob Dylan, dei Grateful Dead, di Jimi Hendrix. Questa musica aveva raccolto, fra l’altro, cose che il jazz aveva buttato nella spazzatura, ed era ripartita da zero, accettando dalla tecnologia moderna solo l’elettricità e l’acido lisergico.
I jazzisti non ci hanno capito più niente, perché una quantità di giovani si radunava al Fillmore non per ballare, ma per ascoltare musica, una musica in cui si suonava il blues, si facevano assoli, la batteria scandiva un grosso ritmo, succedevano cioè le stesse cose che finora erano successe solo nei concerti di jazz. Il jazz si è sentito improvvisamente vecchio, colto e rispettabile. Ha rifiutato i giovani capelloni e contestatori, ed ha cominciato a celebrare se stesso. È stato finalmente accolto dalla cultura ufficiale, alla pari con il teatro e col balletto. Sono cominciati così i festivals col pubblico elegante e i pranzi ufficiali con i discorsi delle autorità. Noi stessi, fedeli appassionati, che prima eravamo considerati dei pazzi e dei cospiratori, siamo diventati persone serie.
Era la fine? Per fortuna no, perché alcuni jazzisti hanno reagito in modo imprevedibile, si sono messi a suonare proprio con quei giovani capelloni che tanto preoccupavano l’establishment e lo stesso ambiente del jazz. Ne è venuta fuori una nuova musica, che forse non è più jazz, ma che è la musica di oggi. Dall’altra parte alcuni jazzisti negri (da Gillespie a Freddie Hubbard) hanno tagliato i ponti con la cultura musicale occidentale, hanno energicamente preso coscienza del fatto che il jazz era la loro musica; e che non era né vecchia né nuova, era il jazz e basta. Questa è a mio avviso la situazione attuale del jazz. Da una parte il jazz è un genere di musica a sé stante, ormai codificato nei suoi stili e nelle sue forme, dall’altra può essere usato con spregiudicatezza, come materiale, come ingrediente per fare altra musica. Queste sono le due possibilità che si offrono oggi a chi si accosta al jazz, per suonarlo o per ascoltarlo. Da una parte bisogna accostarsi il più possibile alla tradizione, al blues, allo swing, ad una certa concezione ritmica, dove ovviamente la tradizione va da Armstrong a Freddie Hubbard, in quanto certi elementi vi rimangono pressoché inalterati. Dall’altra si deve trattare il jazz senza nessun rispetto, come un rottame da gettare nel crogiuolo insieme con altri rottami per ottenere una colata di metallo nuovo e diverso.
Questa situazione è messa in luce con estrema chiarezza dalla struttura del V Festival Internazionale di Pescara. La prima serata è un omaggio ad Armstrong, e presenta artisti che hanno suonato con lui o comunque sono stati largamente influenzati dalla sua musica. Omaggio alla tradizione dunque, alle radici più massicce del jazz. Ma non musica archeologica, musica viva, perché il blues è sempre vivo, come il flamenco o il raga indiano, perché il jazz è musica di tradizione orale, perché Earl Hines deve continuare a dire quello che diceva quarant’anni fa, deve continuare a raccontare di sé come la nonna deve continuare a narrare le stesse favole (il romanzo da premio letterario passa di moda, le favole sono sempre le stesse). La seconda serata è dedicata al jazz classico, perché ormai è classico sia l’aspetto “mainstream” (la scuola di Basie-Ellington) sia il “bop” (la scuola di Gillespie-Parker). Un grande bopper, Dexter Gordon, ci darà un saggio della scuola bop; un grandissimo post-bopper, Horace Silver, ci dirà del bop che, per salvarsi dai pericoli del cool e del californiano, è tornato nelle chiese e nelle piantagioni a ritrovarvi la “soul music” (musica negra più musica negra dunque). Un simpatico gruppo di francesi suonerà la sua devozione per Ellington. Se ci si accosta alla terza serata con lo stesso orecchio e la stessa disposizione d’animo delle prime due serate, si corre il pericolo di andare su tutte le furie. Le prime due serate sono per gli appassionati di jazz, che vogliono sentire il jazz nei suoi stili più ortodossi e goderselo come buongustai che amano ritrovare gli stessi sapori e profumi, oppure sono per tutti coloro che, accostandosi per le prime volte al jazz, devono conoscerlo nei suoi aspetti più veri. La terza serata è per gli appassionati di musica, per i curiosi, per le persone alla moda, per gli intellettuali che vogliono aggiornarsi su quanto si sta facendo ora.
Nella musica-pilota di Keith Jarrett e Miles Davis, il jazz apparirà fuso insieme con altri materiali musicali, oriente, musica folk, pop, avanguardie europee, elettronica, gestualità. Il risultato potrà entusiasmare, o potrà non piacere: in ambedue i casi resta l’unica possibilità di fare la musica di oggi, di dare un suono a ciò che sta accadendoci intorno nel mondo.
Umberto Santucci
Pescara Jazz 73
MAX KAMINSKI
MEMPHIS SLIM
BILL COLEMAN QUARTET
EARL “FATHA” HINES
A JAM SESSION FOR SATCHMO
HORACE SILVER QUINTET
MILES DAVIS GROUP