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Festival Internazionale del Jazz
Edizione 1981

La storia del Pescara Jazz

Pescara Jazz 1981

Il trombettista Woody Shaw, nato in una cittadina del Nord Carolina nel 1944, è un personaggio assai noto nel nostro paese dove ha avuto modo di dar prova delle sue qualità di organizzatore e improvvisatore in molteplici occasioni durante le sue frequenti tournée nel Vecchio Continente. Il suo stile e le sue motivazioni musicali sono legate ai cosiddetti hard-bop e free-bop, due stilemi che ripropongono attualizzato e invigorito, il be-bop di Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Bud Powell e Fats Navarro. E proprio da quest’ultimo grande e sfortunato trombettista discende Woody Shaw, anche se la sua musica ha subito il fascino infuocato di un altro grande, Clifford Brown. Ed è proprio da queste due notevoli fonti ispirative che si è formato, irrobustito e personalizzato Shaw. Da Navarro ha ereditato quel modo chiaro e infallibilmente sicuro della pronuncia, quell’ariosità della frase, quel senso di lirismo sottile e poetico; da Brown ha appreso la fluidità, il senso del ritmo, la grande emissione di calore e di grinta. Ma se un appunto dobbiamo fare a Shaw, è quel suo senso di gelido calore che sembra spargere continuamente: Shaw scalda la sua audience ma ad essa rimane estraneo, quasi gelidamente distaccato. E questo è forse l’unico difetto di questo incisivo quanto raffinato trombettista che ha la capacità di staccarsi spesso dagli accordi di base per dirigersi verso un tipo di improvvisazione più libera, meno confinata nelle strutture fisse di una composizione ma ugualmente logica e relazionata con il tema sul quale improvvisa.

Anni fa, parlando del gran numero di suoi imitatori, Stan Getz disse: “Ho influenzato molti musicisti, ma il mio stile è difficile da imitare perché è fin troppo semplice”. Ecco, la semplicità è proprio l’aspetto più evidente nella musica dell’originale sassofonista cinquantaquattrenne di Philadelphia. Una musica semplice ma dalla logica simmetria, dove tutto sembra essere la rispondenza di un agglomerato melodico, armonico e ritmico: la fantasiosità delle frasi, la qualità degli accordi, la estensione delle note, la dimensione del suono: è una voce che improvvisa il canto con raziocinio e creatività. Una voce, quella di Getz, tra le più belle e personali che l’America abbia mai avuto. E si, perché la voce di Getz è tipicamente americana anche se, ad alcuni falsi progressisti essa appare come il risvolto reazionario di una bieca borghesia bianca. Una voce che si distende attraverso suoni limpidi e sinuosi, intensamente invigoriti da un caldo vibrato. Una voce che si è intelligentemente nutrita degli insegnamenti di quel grande poeta che fu Lester Young, che ha assunto coordinamento nei Four Brothers, che si è affinata a contatto con l’intellettuale cool-jazz, che si è irrobustita nell’ardente be-bop, che si è immalinconita nell’incontro con la musica brasiliana. Una voce che si è umanizzata attraverso tristi vicende, dall’eroina all’alcool, le stesse che poi, paradossalmente, lo fecero apparire arrogante e, quando si liberò di siringhe e bottiglie, smidollato e qualunquista routinier. Ma la voce di Stan Getz, nel bene o nel male, resta tra le più sensibili e raffinate voci che il jazz abbia mai prodotto. Una voce che pur se identificata in tranquille e placide ballads, sa alternare veementi e dinamiche sonorità nella più pura tradizione del linguaggio jazzistico.

L’archetipo di Art Pepper è quello di un emulo di Charlie Parker passato attraverso le sofisticazioni di un Lee Konitz e maturato al sole della west coast nelle Big Band di Benny Carter e Stan Kenton. Ma la vera natura artistica di questo sensibile e straordinario sassofonista contralto cinquantaseienne della California va ben oltre queste brevi note di colore. Tra i tanti pregi di Pepper, quello che sorprende di più è la lucidissima convivenza che riesce a stabilire tra tema e improvvisazione sul tema, dove l’improvvisazione diviene una vera estensione della parte scritta, ampliata negli aspetti drammatici, arricchita di una intensa poetica e felicemente ricondotta in porto tirando all’infinito i fili armonici. Il torto di Pepper è quello di essersi assentato dalla scena attiva del jazz troppo frequentemente, a causa della sua riprovevole abitudine all’uso di sostanze stupefacenti che comportò lunghi periodi di detenzione e altrettanto lunghe degenze in centri di riabilitazione. Ma da quell’inferno, come ogni grande artista, Pepper è tornato integro e fortificato al punto che è divenuto la maggiore attrazione jazzistica degli ultimi due o tre anni e le richieste di concerti e incisioni si accumulano quotidianamente sul suo taccuino. Potrà sembrare un paradosso ma oggi la voce cristallina di Art Pepper si è arricchita di un senso di tensione drammatica che lo rende ancora più interessante e personale di quanto già fosse: il suo originale solismo, scattante e acerbamente nervoso, rimbombante di puro lirismo, di sopraffine articolazioni melodiche e armoniche ha assunto maturità, si è ulteriormente umanizzato. E così l’attuale Art Pepper appare un moderno cantastorie che espande il suo canto fresco, il suo canto giovanile dalle intense e antiche memorie.

Il libro autobiografico di Dizzy Gillespie “To Be or not to Bop”, inizia con questa frase: “Una fotografia mostra che bel bambino fossi, ma ero anche l’ultimo di nove figli e il mio arrivo, probabilmente, non eccitò nessuno”. Proprio il contrario di ciò che sarebbe avvenuto più tardi quando, poco dopo essere arrivato a New York in cerca di fortuna, entrò nell’orchestra di Teddy Hill, e diede i primi segni di una indubbia fantasiosità innovativa che non tardò a manifestarsi nella sua completezza e a fare di Dizzy il trombettista da seguire: soprattutto dal punto di vista armonico fu il trombettista più importante di tutto il jazz moderno. Eppoi, fu una sorta di essenziale anello di una catena evolutiva dello strumento che prima di lui aveva avuto quali punti cardine Louis Armstrong e Roy Eldridge. Dizzy investigò le loro caratteristiche e emancipò i loro stili; li rese moderni pur mantenendo di essi il carattere e il temperamento: la compattezza sonora, la disinvolta esplorazione degli acuti, la fertile progressione, l’incisività e la pronuncia e, soprattutto, le idee originali. Un incontro decisivo con Charlie Parker e i boppers, la sua grande orchestra, i piccoli gruppi, le molteplici jam session, sono sempre stati contrassegnati da una voglia di mostrare il meglio di sé stesso e soprattutto, da una disponibilità disarmante, fedele immagine di un carattere allegro e sempre disposto alla gag, allo scherzo più ingenuo o alla battuta più mordace. Ma non si creda nè si pensi che la musica di Gillespie sia una sorta di vagabondo paradiso dei suoni, una palestra per burle condite di musica: quando suona, questo straordinario trombettista sessantaquattrenne di Cheraw, nel South Carolina, sa ancora oggi procurare una moltitudine di emozioni raccontando la sua storia all’interno della storia del jazz. La notorietà di un artista è spesso indicata dal caso, da intuizioni estemporanee, da scelte a volte giuste a volte errate.

Larry Coryell, valente chitarrista dotato di capacità tecniche e improvvisative che non gli vietano nè virtuosismi nè ricerche estremizzanti, sembra incarnare la figura dell’artista dalle mille intuizioni, dai molteplici tentativi attraverso i quali approdare felicemente a notorietà e successo. Coryell, 38 anni, texano, è nato musicalmente tra Country & Western, Pop-music e Rhythm & Blues e poi ha investigato e approfondito ulteriori aspetti della musica: il jazz di stampo leggermente cameristico (con Chico Hamilton), le confluenze d’incontro tra country e jazz (nello splendido quartetto di Gary Burton), le avanguardie compositive e improvvisative (con la Jazz Composer’s Orchestra, un nucleo che comprendeva Don Cherry, Pharoah Sanders, Carla Bley, Gato Barbieri, Roswell Rudd e altri), ed infine, è stato tra i primi ad avvertire l’esigenza di combinazioni elettriche e la fusione tra il jazz e il rock (con i suoi gruppi “Free Spirits” e “Eleventh House”). Tutte queste esperienze così dissimili hanno concorso alla maturazione di un autentico talento a cui la critica, spesso e volentieri, ha sparato a zero per una fin troppo esplicita voglia di arrivare lasciandosi coinvolgere in situazioni musicali dagli ampi risvolti commerciali. Recentemente il chitarrista ha intrapreso un ulteriore cammino, quello solistico, solitario e abbondantemente intimistico, e in questa nuova veste, inedita per l’Italia, si presenta al pubblico pescarese.

Clark Terry, trombettista e flicornista, caporchestra e gustoso vocalist, è nato 61 anni fa a St. Louis, la città del Missouri bagnata dal Mississippi. È indubbiamente un artista di grande classe e originalità le cui peculiarità stilistiche sono così esplicite da non porre problemi di individuazione: un intenso e bruciante calore, un gusto tra i più raffinati, un virtuosismo al limite della spettacolarità, un ampio senso della struttura e del rapporto composizione-improvvisazione. Eppure, malgrado queste facoltà, non si può certo dire che Terry sia un caposcuola del suo strumento o sia stato l’uomo-guida di un movimento musicale. È certo però, che egli è uno dei rari trombettisti viventi ad aver preservato ed emancipato quella sorta di vago primitivismo, quell’arguto senso del colore che fu prima di Bubber Miley e poi di Rex Stewart: Terry ha mantenuto vive tali caratteristiche pur agendo in un momento storico assai diverso da quello che vissero i suoi ispiratori. Ricca di un sottile senso dell’umorismo (che è poi lo specchio fedele del carattere dell’uomo), la musica di Terry è una musica senza età, una musica in cui convivono in sintetica fusione aspetti moderni e echi di una tradizione. È, in breve, quella musica definita mainstream, ossia strada maestra. E la grande corrente del jazz è, principalmente, espressa da Clark Terry attraverso l’ampio organico, la Big Band, da sempre il veicolo più aderente al suo modo di interpretare il jazz. Un veicolo nel quale Terry è cresciuto, ha imparato il mestiere di bandleader accanto a Count Basie, Duke Ellington, Charlie Barnet, Lionel Hampton, Oscar Pettiford, Quincy Jones, Gerry Mulligan e infine, nella sua Big Bad Band. E dunque, che sia proprio Terry a dirigere questa splendida All-Star-Band di ex-basiani è la scelta più logica che si potesse fare.

Mario Luzzi

Pescara Jazz 81

11 LUGLIO
MASSIMO URBANI QUARTET
WOODY SHAW QUINTET
STAN GETZ SEXTET
12 LUGLIO
ART PEPPER QUARTET
DIZZY GILLESPIE ALL STARS
13 LUGLIO
CLAUDIO FASOLI QUARTET
LARRY CORRYELL
COUNT BASIE ALUMNI BIG BAND

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