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Festival Internazionale del Jazz
Edizione 1983

La storia del Pescara Jazz

Pescara Jazz 1983

Operare con originalità nel tessuto musicale jazzistico non significa necessariamente muoversi su campi sonori inediti o poco frequentati. A volte, lo stimolo e l’originalità possono nascere anche da riproposizioni di stilemi che, carichi di storia e successi, possono apparentemente risultare stanche e obsolete riletture o, tutt’al più, sentiti omaggi démodé. Il Sestetto Swing di Roma, una formazione che stilisticamente risale alla Swing Era, e più specificamente alle sonorità vibranti del sestetto di Benny Goodman, ha il pregio di non apparire datata perché sorretta da una vitalità e da una musicalità che supera i confini temporali e riattiva quel gusto, troppo spesso accantonato o semplicisticamente bistrattato, del fare musica con professionalità e semplicità espressiva, senza porsi problemi di revival ma, al contrario, operando con mente limpida e coscienza artistica, e utilizzando tutte quelle risonanze interne che sono proprie di ogni essere umano che ha trovato nel jazz quella libertà di raccontare la propria piccola storia all’interno di una grande storia. Sull’anno di nascita di Lionel Hampton i biografi sono in contrasto; indicano 1909 o 1913 o ancora 1914. Forse la chiave per localizzare la figura di questo autentico “pezzo di storia” è tutta in questo contrasto. Hampton è un uomo senza età, un uomo che ha l’età del jazz. E dell’espressione jazzistica egli sintetizza o dilata tutti i suoi aspetti: personalità, intuito, vitalità, freschezza, istrionismo, brillantezza, veemenza, calore; e vi aggiunge un pizzico di spettacolarità. Perché Hampton, oltre ad essere un grande vibrafonista ed un fervido caporchestra, è soprattutto un uomo di spettacolo che tende a dare al pubblico tutto se stesso con rinnovata energia e dilagante divertimento, ed ogni suo concerto si trasforma in una festa. Questa tendenza – che gli ha regalato popolarità ed al contempo ha contribuito a far uscire il jazz dai vicoli dell’incomunicabilità – è stata spesso letta in negativo. Ma lui, il vecchio gigione che si esalta nel divertire i suoi fans, non se n’è mai curato e continua ancora oggi, come faceva negli anni Quaranta, a proporre il suo eccitante Flying Home, a dispensare swing da diciotto carati, ad infiammare le platee di tutto il mondo, a divertire giovani e meno giovani con una musica che non ha età.

Sin da quando l’altosassofonista americano Charlie Mariano si trasferì in Europa, trovò nel chitarrista belga Philip Catherine colui che più di altri mostrò quella sensibilità e quell’intuito necessario a penetrare il suo profondo mondo poetico e i suoi limpidi cristalli sonori. L’unione tra i due è andata sempre più consolidandosi e il loro intenso rapporto ha generato una musica basata sull’esplorazione delle tradizioni folcloriche dell’universo. La loro musica è una sorta di acuta e intelligente fusione tra espressioni orientali e romanticismo europeo, una musica che, partendo dalla contrapposizione di elementi culturali diversi, diviene congeniale e, al contempo, ricca di originalità, grazie a quell’apporto potenziale del linguaggio jazzistico che rappresenta la base lessicale dei due improvvisatori che, pur operando su tematiche e stimoli più ampi, su accenti culturali più antichi, risolvono il loro excursus nel mondo del folclore proprio attraverso quelle capacità di sintesi del jazz e dei suoi protagonisti.

Erede dello stile trombettistico di Clifford Brown, il quarantacinquenne Freddie Hubbard ha influenzato, forse più di tanti altri, tutta una generazione di giovani trombettisti. Le sue particolarità stilistiche, legate al vigoroso linguaggio dell’hard-bop, a quella corrente nera che negli anni Cinquanta si riappropriò del jazz dopo la breve stagione dominata dalla linea bianca, possono essere sintetizzate in una capacità espressiva ribollente di grinta e calore – che appare scoperta sin dalle sue prime ed incisive note – e in una vena melodica particolarmente intensa che, soprattutto nelle ballads e nell’uso del flicorno, sa essere chiaroscurale e ricca di tiepide tensioni malinconiche. Ma questi sono solo gli aspetti più evidenti della musica e della personalità di Hubbard, un uomo che non ha mai saputo rinunciare a nessun tipo di esperienza, da quelle avanguardistiche con Ornette Coleman o con John Coltrane, a quelle più squisitamente commerciali della contaminazione jazz-rock degli anni Settanta. E da tutte queste esperienze, il trombettista ha acquisito qualcosa che oggi, forte di una maturità artistica fuori discussione, propone al pubblico con quella semplicità e quella grinta che gli sono proprie.

La linea del modern mainstream può sembrare una via espressiva di comodo, soprattutto in un momento di riflusso come quello attuale. Essa, però, nelle mani del Milan Jazz Quartet, pur mantenendo quel ruolo di raccordo tra le generazioni passate e quelle di oggi, si riveste di un acuto senso di originalità timbrica e dinamica che, se da un lato testimonia la duttilità della forma musicale specifica, dall’altro sembra essere l’arma vincente. La loro riproposizione di famosi standard è sorretta da un gustoso ed intelligente senso di sintesi, mentre le composizioni originali ripropongono quell’ariosità e quell’equilibrio tra feeling e consapevolezza che è alla base di ogni operazione musicale che nasce dal desiderio intimo di poter dire una parola nuova.

“Jimmy Smith – scrisse Joachim E. Berendt – ha reso all’organo quello che Charlie Christian ha reso alla chitarra e cioè l’emancipazione”. Parole sagge ma, al contempo, leggermente riduttive nei confronti di questo straordinario organista che non si limitò a conferire allo strumento una fisionomia linguistica ma gli procurò una popolarità che nessuno aveva previsto così copiosa. Quando apparve sulla scena del jazz, nella metà degli anni Cinquanta, questo incisivo musicista oggi cinquantottenne, s’impose immediatamente in virtù di una grande fantasiosità ritmica ma anche quell’intenso senso del blues che esprimeva con evidenti caratteristiche originali che emanavano profumi Soul. Il suo vigore e la sua incredibile potenzialità, non erano solo elementi di una calibrata alchimia elettronica, ma vere e proprie esplosioni di calore rivestite di gusto, senso della misura e una buona dose di humour. Qualità, queste ultime, che ancora oggi il celebre organista mantiene intatte sfidando il trascorrere degli anni e delle mode.

L’altosassofonista newyorkese Jackie McLean è uno degli epigoni più originali del lessico improvvisativo di Charlie Parker. Di questo straordinario fulcro del be-bop e di tutto il jazz moderno, McLean ha conservato l’impostazione del fraseggio e lo spirito libertario, lo scatto repentino e l’ampiezza del suono. Queste caratteristiche, aggiunte ad altre doti personali come, ad esempio, la crudezza quasi abrasiva dei suoi acuti e la sonorità aspra di pronuncia nasale, danno corpo ad una personalità di indubbie capacità espressive, che racconta storie dai risvolti malinconici sorretta da un grande lirismo che, soprattutto nelle ballads, risplende attraverso una voce tutt’altro che limpida ma ricca di un velo di sensualità che, aggiunta ad una grinta straripante, riveste di fascino e di spessore la sua musica. Dopo una lunga parentesi dedicata all’insegnamento, McLean è tornato in pista a far cantare il suo sax, esternando un piglio meno vulcanico ma decisamente più maturo, saldando il debito parkeriano alla lezione coltraniana, dando vita ad un nuovo capitolo dell’Arte di improvvisare con quella sua inconfondibile voce piena di risvolti umani e di intenso calore.

Mario Luzzi

Pescara Jazz 83

8 LUGLIO
SESTETTO SWING DI ROMA
LIONEL HAMPTON BIG BAND
9 LUGLIO
CHARLIE MARIANO & PHILIP CATHERINE QUARTET
FESTIVAL ALL STARS
Freddie Hubbard, Lew Tabackin, Joanne Brackeen,
Charlie Haden, Roy Haynes
10 LUGLIO
MILAN JAZZ QUARTET
JIMMY SMITH QUARTET
JACKIE McLEAN & BOBBY HUTCHERSON QUARTET

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