Festival Internazionale del Jazz
Edizione 1984
La storia del Pescara Jazz
Pescara Jazz 1984
Se la vicenda del jazz fosse costretta a scegliere il suo alfiere più eclettico, l’artista più flessibile, l’uomo costantemente animato da stimoli e desideri multidirezionali, Chick Corea figurerebbe in testa alla lista dei nomi in ballottaggio. Pianista di altissima classe, compositore personalissimo, organizzatore sonoro di gruppi d’avanguardia o di consumo, Corea ha sperimentato il suo bagaglio tecnico-espressivo in vari e diversificati campi musicali. Il suo viaggio multidirezionale all’interno del mondo dei suoni si è mosso, e ancora oggi si muove, simultaneamente tra dimensioni estetiche e percorsi commerciali, impressionismo neoromantico e avventure elettriche, melodie dagli echi latini e plastico accademismo occidentale. Vecchi e nuovi sogni. Incontri contemporanei, interscambi tra culture, rimbalzi della memoria. Un excursus artistico a trecentosessanta gradi quello di Corea. In così tanta varietà di pensiero e di approcci, il suo “piano solo” emerge splendidamente nel marasma delle tendenze e dei tentativi, perché Corea non cerca solo di ricapitolare la sua storia attraverso il pianoforte, ma ne tenta l’estensione, accelera i tentativi per nuove dimensioni, per nuovi codici espressivi che, pur non distaccandosi dal suo lessico personale, spazino alla ricerca di nuovi orizzonti, che generino un nuovo canto. La dinastia dei sassofonisti tenori texani si distingue da altre tendenze stilistiche in virtù di una sonorità ampia e corposa, trascinante e lievemente sguaiata, capace di costruire crescendo infuocati, eccitanti. Un’espressione che, se mal controllata, rischia di assumere risvolti volgari.
Non è certo il caso dei tre meravigliosi Texas Tenors che compongono questa All-Stars paritetica, uomini che battagliano tra loro con humour e spirito comunicativo, dando fondo, ognuno, alle proprie qualità dialettiche. Perché lllinois Jacquet, Arnett Cobb e Buddy Tate, pur appartenendo alla stessa dinastia, esprimono quelle caratteristiche di origini e generazione con ottiche e accenti decisamente personali. Jacquet, il più famoso dei tre, vero capostipite della dinastia, alla potenza incendiaria straordinariamente controllata accoppia una felice emissione di note acutissime; Cobb, al contrario, accanto alla timbrica esplosiva e scatenata pone una sonorità decisamente aggressiva, selvaggia; Tate, invece, allo swing esplicito e diretto contrappone una tenera vena nell’interpretare ballad, mostrando contemporaneamente riflessi melodici e robustezza ritmica. Tre facce di una medaglia, tre interpreti di una scuola calorosissima che continuano a recitare una parte che non è più un cliché, ma elemento della propria pelle di uomo e di artista.
La lunga assenza dalle scene concertistiche internazionali di Steve Grossman può far pensare ad una ennesima ripetizione del “ragazzo bruciato verde”. In effetti, la verità è un’altra: il sassofonista, negli ultimi anni, ha preferito dedicarsi completamente all’insegnamento. La sua stella, comunque, si era accesa prestissimo, forse prematuramente. Appena diciottenne entrò nel gruppo di Miles Davis e partecipò attivamente alla puntualizzazione della svolta elettrico-rockeggiante del celebre trombettista, immettendo nel sound globale del gruppo una sorta di “calor bianco” espresso attraverso flussi di linee melodiche di indubbio interesse, un fraseggio solido e una sonorità tesa e decisamente bella. Stilisticamente Grossman è un erede dell’estetica post-coltraniana, non eccessivamente originale, ma dotato di notevole vigore e forte temperamento. Successivamente approdato nel complessino di Elvin Jones, costituì con David Liebman un eccellente team di sassofoni al servizio del batterista che, con loro, raddoppiando il suono dello stesso strumento, tentò di rinverdire i fasti del favoloso quartetto di Coltrane. A Grossman va accreditato anche un gusto e una conoscenza della musica latina che, abilmente mescolata alle basi boppistiche, conferisce alla sua musica un senso di nobiltà e sincerità che dovrebbero rendergli giustizia.
Parlare di Count Basie e del jazz è praticamente la stessa cosa. Perchè, se l’uomo entrò a far parte di questo meraviglioso idioma musicale nel 1928, quando le prime pagine della storia del jazz erano già state scritte, e ne uscì il 26 aprile scorso, quando l’evoluzione di questa musica è ancora lontana dal concludersi, la sua figura ha rappresentato l’essenza del jazz. Basie questa musica la visse intensamente in prima persona, la modellò, ne precisò il carattere, ne ampliò i limiti e contribuì a renderla popolare utilizzando magistralmente tutte le sue risorse dialettiche, a cominciare dai “riff” venati di blues che determinavano effetti swing incandescenti. E Basie era sempre lì, seduto al piano, col suo stile scarno e brillante, a dare il via a quella magica orchestra zeppa di grandi solisti, a quell’autentica “macchina da swing” dai profumi accattivanti, ma anche dai vibranti contenuti umani. Un omaggio a Basie è dunque doveroso. E nelle mani di questa All-Stars, con la dolcissima tromba di Harry “Sweet” Edison, basiano dalla testa ai piedi, e con una ritmica imperniata sul sintetico piano di John Lewis, con George Duvivier al contrabbasso e Oliver Jackson alla batteria, può nascere qualcosa di più di un semplice omaggio; la magia della musica è indefinibile.
Dominatore assoluto della scena del trombone moderno negli anni Quaranta e Cinquanta, J.J. Johnson è ancora oggi, a sessant’anni, insuperato Maestro dell’idioma boppistico. Stilista perfetto, originale e raffinato, autentico innovatore del suo strumento, tecnicamente completo, ricco di una gamma fittissima di colori e di un calore mozzafiato alimentato da idee non-stop, Johnson si è lasciato alle spalle i glissandi e i suoni ruvidi che avevano caratterizzato il trombone bandistico, dixieland e swing, inventando ex novo un fraseggio rapido e snello, forgiato sull’agilità del sassofono e sviluppando le sue improvvisazioni su coordinate melodiche. Padrone di un timbro omogeneo e levigato, capace di stacchi di tempo velocissimi, solista equilibrato e trascinante, Johnson ha spianato la strada ai trombonisti contemporanei che sulle sue innovazioni hanno edificato i propri stili. Professionista dal 1941, è stato nelle Big Band di Benny Carter, Count Basie e Dizzy Gillespie, nei complessini di Charlie Parker, Miles Davis e Clifford Brown, e con Kai Winding formò un’eccezionale team di tromboni che rafforzò la sua popolarità. Compositore e arrangiatore di gusto, ha lavorato a lungo per il cinema e la televisione. Questa sua All-Stars, con il vibrante Nat Adderley e il dinamico Harold Land, è una delle grandi attrazioni dell’estate 1984.
Cantante superlativa, improvvisatrice dal fraseggio acrobatico, capace di esprimere contemporaneamente feeling e virtuosismo, di creare atmosfere eccezionalmente personalizzate e cariche di phatos, Sarah Vaughan ha sofferto per anni l’arrivo di un’ampia popolarità: la sua voce era troppo raffinata e sofisticata per essere compresa e amata da tutti. Fin dagli inizi della sua carriera – che prese il via negli anni Quaranta nelle prime orchestre bop di Earl Hines e Billy Eckstine, al fianco di acerbi talenti quali Charlie Parker e Dizzy Gillespie – Sarah mostrò una naturale predisposizione per concezioni vocali simili a quelle di uno strumento; una tendenza, questa, che non ha mai abbandonato. In lei, infatti, si ritrovano delle particolarità di trattamento del tessuto musicale che nessun’altra vocalist ha mai espresso con tanta determinazione: la profondità e l’ampiezza del suo registro basso, contrapposta alla scorrevole e dinamica ascensione verso le vette più alte dei suoi acuti. Bassissimi e altissimi espressi con sicurezza e proprietà stilistica inimitabile, insuperabile. E poi, un acuto senso ritmico e un feeling che coinvolge anche il più distratto degli ascoltatori, trasportato in quei limbi sonori carichi di lirismo, di vibrante poetica, sia nello “scat” di cui è maestra che in altri vocalismi apparentemente convenzionali.
Mario Luzzi
Pescara Jazz 84
THE TEXAS TENORS
Illinois Jacquet, Buddy Tate, Arnett Cobb
Harry Edison, John Lewis, George Duvivier, Olivier Jackson
J.J. JOHNSON ALL STAR SEXTET