Festival Internazionale del Jazz
Edizione 1987
La storia del Pescara Jazz
Pescara Jazz 1987
II successo di “Round Midnight”, il cult-movie del regista francese Bertrand Tavernier, poeta dell’immagine e sottile narratore di sentimenti, ha riacceso l’interesse del grande pubblico per il jazz. Un film che, finalmente, rende giustizia al jazz e ai suoi protagonisti, spazzando via i misfatti che Hollywood gli ha regalato in anni e anni di “pastiches” caramellosi e irritanti. Tavernier ha saltato l’ostacolo della retorica e si è ispirato alla vita travagliata di un jazzman, e l’ha rappresentata con una particolare cura per gli ambienti, il linguaggio e le musiche. Per questo cult-movie, Dexter Gordon si è guadagnato la “nomination” all’Oscar per la migliore interpretazione maschile e Herbie Hancock, autore e coordinatore delle musiche, ha vinto l’Oscar per la migliore colonna sonora. Avere Dexter Gordon e Herbie Hancock nel cartellone del Festival Internazionale del Jazz di Pescara è un grande evento e un privilegio. E se Hancock arriverà con il suo trio, Gordon sarà con la Round Midnight Band, una occasione per rivivere in diretta le musiche del cult-movie. Dexter Gordon, è uno dei tasselli più importanti nel mosaico dell’evoluzione tenorsassofonistica del be-bop. Il suo personalissimo stile è nato coniugando in parallelo il relax disteso e sinuoso di Lester Young e la sonorità robusta e grintosa di Coleman Hawkins, adattandoli alle complessità armoniche di Charlie Parker. Un lavoro di arguta sintesi al quale si aggiungono le scelte e le tendenze proprie di Gordon, quelle che diedero corpo al fraseggio dinoccolato e vibrante, alla voce levigata e piena di phatos, al gusto inimitabile per la colloquialità, per il racconto sonoro. Perché Dexter Gordon è uno dei più straordinari “story-teller” che abbiano circolato per le strade del jazz. Forse non è un caposcuola in senso stretto, ma il suo stile ha generato molti seguaci eccellenti, primo fra tutti il grande John Coltrane, che iniziò a suonare il sassofono tenore ispirandosi proprio alla sonorità e al ricco fraseggio di Gordon. Se non è un caposcuola è certo un grandissimo solista, dotato di grande dinamica e notevole immaginazione, di swing copioso e magia incantatoria.
La musica di Stan Getz, straordinario tenorsassofonista di Filadelfia, oggi sessantenne, è l’immagine della semplicità e della logica. Nel suo personalissimo stile vive un agglomerato melodico, armonico e ritmico dove la fantasia del fraseggio, l’estensione delle note, la dimensione del suono si fondono e danno via libera ad una voce che improvvisa il canto con raziocinio e creatività. Una voce, quella di Getz, tra le più belle dell’intera storia del jazz. Una voce che si distende attraverso suoni limpidi e sinuosi, intensamente invigoriti da un caldo vibrato. Una voce che si è intelligentemente nutrita degli insegnamenti di quel grande poeta che fu Lester Young, che ha assunto coordinamento negli hermaniani Four Brothers, che si è affinata con l’intellettuale “cool-jazz”, che si è irrobustita con l’ardente “be-bop”, che si è immalinconita nell’incontro con la musica brasiliana. Una voce che si è umanizzata attraverso tristi vicende, l’eroina e l’alcool, e che vibra in tutte le sue fibre interiori, sensibile e raffinata, poetica e lirica nelle ballads, veemente sui ritmi accesi.
L’altosassofonista di pelle bianca Phil Woods, cinquantaseienne del Massachussets, è uno degli epigoni più sinceri e penetranti di Charlie Parker. Una voce strumentale aggressiva, swingante ed estremamente emotiva, ha il dono di saper coordinare e controllare armonia e ritmo, e di lanciare copiosi squarci di lirismo. Un suono che, pur aggressivo, sa creare preziosi chiaroscuri e suggestioni sonore, dove l’attacco bruciante sa portare tensione e causare emozione. E il gusto, l’equilibrio sonoro raffinato, la timbrica personalissima, le svettanti volate improvvisative e l’indubbia espressività lo pongono ai vertici del jazz attuale. Dopo anni in quartetto, Woods ha sentito il bisogno di ampliare la sua formazione e la scelta di un trombettista originale come Tom Harrell ha aperto spiragli radiosi alla dimensione del quintetto che ora vive di sottilissimi e sensibilissimi dialoghi a cinque voci. Perché la sezione ritmica, oltre ad essere una unità sonora di grande qualità, è parte integrante di un discorso “aperto” che Woods influenza e avvia.
Nell’ambiente del jazz lo chiamano Mr. Grammy, per via di cinque prestigiosi oscar discografici collezionati in cinque anni consecutivi; senza contare i Grammy che Wynton Marsalis si è guadagnati come esecutore di musica classica. Situazioni inedite per un jazzista che lo hanno proiettato nell’occhio del ciclone fino a farne un “caso Marsalis”. Il giovane talento di New Orleans, comunque, non si lascia condizionare da polemiche o riconoscimenti ma guarda avanti con estrema fiducia, dotato di una formidabile tecnica trombettistica e di un forte pragmatismo che lo porta ad approfondire la sua azione di solista e organizzatore sonoro di piccoli gruppi. Uno stile che non nasconde di essere debitore del Miles Davis anni Sessanta, e una voce che acquisisce giorno per giorno personalità ed equilibrio. Ma, soprattutto, un musicista integro e tenace che a ventisei anni tenta di non deludere tutti coloro che gli hanno assegnato il ruolo di trombettista del futuro, di un artista che guarda avanti sintetizzando tutti quei segnali che la storia del jazz ha espresso fino ad oggi.
L’universo sonoro di Enrico Rava è costellato di continue ricapitolazioni. In lui, e nella sua tromba, vivono quelle contraddizioni che lo portano ora a rivisitare certe tendenze libertarie e di rottura, ora ad illanguidirsi di fronte ad un romanticismo che può sfociare persino nella canzonetta. Perché in Rava il bisogno di rimettere tutto in discussione è più forte di una raziocinante esplorazione o sperimentazione, e quel sottile brivido dell’imprevisto, del rischio, è il suo maggiore stimolo, una spinta alla quale non ha mai saputo rinunciare. E la sua musica è come uno specchio deformante, dove la melodia affiora ed è subito ricacciata via da un suono acido, da un borbottio, da un trillo di tromba, da nuove tensioni, nuovi ritmi, nuovi colori, nuove melodie. Una musica che sa rinnovarsi e trasformarsi con rapidità disarmante, vigile nell’allontanarsi dal cliché, dalla routine, senza perdere il gusto e la sua disinibita freschezza. E senza dimenticare le “memorie”, che sanno riproporsi in vesti ariose, come sirene affascinanti portatrici di nostalgie e di stimoli.
Un grandissimo virtuoso della tastiera, Herbie Hancock, ma anche un artista raffinato che guarda con maggiore interesse alla frase preziosa che non a quella effettistica, anche quando si raccoglie attorno a temi “gospel-funk”. E anche compositore capace di inventare temi accattivanti o melodie malinconiche, esemplificate da un “Watermelon Man” e da un “Maiden Voyage” o da un “Dolphin Dance” e da un “Chan’s Song”. Ritmicamente mobilissimo e armonicamente spregiudicato, Hancock è sicuramente il pianista più importante emerso nel jazz dopo Bill Evans, del quale è un sincero epigono. Ma tra i suoi debiti pianistici ci sono ampi squarci che ricordano Bud Powell o il meno noto Wynton Kelly. Ed Hancock si rivelò in tutto il suo talento proprio sostituendo Kelly nel gruppo di Miles Davis, esplorando con il trombettista il jazz modale, i ritmi sospesi e sovrapposti, contribuendo ad aperture concettuali ancora lontane dall’essere sviluppate. E quel lirismo che serpeggia in ogni esecuzione hancockiana è una delle caratteristiche più spiccate di un pianista di grande talento e fascino. Lo swing, il divertimento, l’informalità e il coinvolgimento rappresentano le caratteristiche più evidenti degli One o’clock jumpers, una formazione che agisce nel segno di uno dei più grandi bandleader della storia del jazz: Count Basie. Un ottetto di ispirazione basiana che riprende in mano un repertorio storico e indimenticabile, da “One o’clock jump” a “Blue And Sentimental”, da “Lester Leaps In” a “Jumpin’ at the Woodside”, da “Swingin’ the Blues” a “Moten Swing” e così via. Temi nei quali i protagonisti di questo ottetto sono cresciuti dentro e che, sera dopo sera, tentano di coglierne il succo, accenderne i colori, rivestirli di spruzzi umoristici, viverne le emozioni e le nostalgie. Musicisti che si sono lasciati alle spalle la verde età senza disperdere le proprie energie nè il gusto per il guizzo improvvisativo. Un ottetto che allinea il solismo scintillante di Clark Terry e l’humour di Al Grey, le invenzioni gioiose di Buddy Tate e la sonorità corposa di Billy Mitchell, ad una sezione ritmica “ad hoc”, con Nat Pierce e Ray Pohlmann, Eddie Jones e Oliver Jackson. E la festa comincia!
Mario Luzzi
Pescara Jazz 87
STAN GETZ QUARTET
PHIL WOOODS QUINTET
WYNTON MARSALIS QUINTET
ENRICO RAVA QUINTET
HERBIE HANCOCK TRIO ONE O’CLOCK JUMPERS