Festival Internazionale del Jazz
Edizione 1992
La storia del Pescara Jazz
Pescara Jazz 1992
A non voler nascondere la testa sotto la sabbia, dobbiamo ammettere che per il jazz è questo un momento di stanca: in mancanza del genio capace di imprimere una decisa accelerazione al processo evolutivo che ha determinato il continuo divenire della musica più affascinante del secolo, i musicisti finiscono per fossilizzarsi in quella che, alla lunga, sta scadendo in una formula di scarso fascino. Che lo si battezzi immaginificamente “mainstream jazz” o lo si definisca più tecnicamente “hard bop”, la sostanza non cambia: i jazzmen, dopo la scomparsa di Charlie Parker o la nuova codificazione del “bop” operata da Horace Silver, Clifford Brown, Cannonball Adderley, hanno seguitato a battere la stessa via per oltre un trentennio. Neppure le travolgenti innovazioni apportate da John Coltrane ed Eric Dolphy hanno indotto, se non episodicamente, la maggioranza di musicisti a cercare nuovi sbocchi che, anzi, la sofferta decennale avventura della “new thing” e le sfavorevoli ripercussioni avvertite soprattutto nel mondo dello show-business li ha, semmai, convinti ancor più a seguire l’iter che per tanti anni aveva loro spalancato le porte delle industrie discografiche con le allettanti possibilità a queste connesse.
Organizzare un festival internazionale del jazz, in un simile momento, è cosa tutt’altro che semplice, anche a prescindere dalla massiccia proliferazione di manifestazioni estive e dalla conseguente difficoltà di scelta degli artisti. Il problema, nelle sue linee essenziali, sta fondamentalmente nel dilemma costituito dalla tentazione di seguire la corrente ed invitare musicisti che suonano nella tradizione, intesa in senso lato, oppure di rappresentare il particolare momento jazzistico e mostrarne le sfaccettature più interessanti assolvendo, innanzitutto, il doveroso compito della informazione e lasciando, infine, al pubblico lo stimolante esercizio di tradurre, interpretare e valutare il senso di queste correnti alternative. È stata verso questa seconda direttrice che si è orientata la decisione dell’organizzazione e ci sembra una scelta giusta che ha consentito di inserire nel programma artisti che agiscono in aree diverse, ma pur sempre radicate nel fertile terreno del jazz.
Preceduto dall’itinerante “Jazz tra la Gente” che per quattro giorni ha portato in alcune caratteristiche località d’Abruzzo uno dei nostri più prestigiosi complessi – il quartetto di Franco Cerri e Enrico Intra – e da una breve, ma compendiosa “Rassegna del Jazz Italiano” che ha visto succedersi sul palco il quintetto di Lello Scassa, il sestetto di Bepi D’Amato, il trio di Danilo Rea, Furio Di Castri, Aldo Romano, la Bing Bang Orchestra, la ventesima edizione del Festival Internazionale è tornata alla sede originaria, il Parco delle Naiadi. L’apertura ad un sestetto di grandissimo interesse artistico che alla più umana delle voci strumentali del jazz, il sassofono, dedica il suo repertorio con una rivisitazione di dieci tra le più indimenticabili interpretazioni firmate tra il ’39 ed il ’64 da Lester Young, Coleman Hawkins, Ben Webster, Charlie Parker, Gene Ammons, Sonny Rollins, Dexter Gordon, John Coltrane, Stan Getz, Eric Dolphy. A concludere la serata il quintetto riunito da Eddie Daniels e Gary Burton che hanno scelto come temi i più celebrati successi di Goodman per dimostrare come, a distanza di mezzo secolo, lo swing sia tuttora attuale. Il secondo concerto è riservato a due sassofonisti di estrazione diversissima: uno, Gerry Mulligan, nato con lo swing e, in perenne anticipazione dei tempi, tra i rivoluzionari codificatori del “cool jazz”; l’altro, Archie Shepp, alfiere della protesta “free”, tornato al jazz dell’epoca classica ed all’amore per quei sassofonisti che a Kansas City dettero vita ad una stagione irripetibile.
La voce come strumento è con ogni evidenza il filo conduttore che unisce Dee Dee Bridgewater a Carlos Lyra. La cantante, già acclamatissima alle prime apparizioni con l’orchestra di Thad Jones e Mel Lewis, sembra trarre dal natio “deep south” la linfa per le sofferte interpretazioni che la hanno ormai consacrata come degna erede delle grandi signore della canzone, alla stessa maniera che il pirotecnico mondo sudamericano costituisce il fondamento per le esecuzioni del chitarrista cantante Carlos Lyra, uno dei più celebrati rappresentanti di quella “bossa nova” che non pochi jazzmen hanno dimostrato di apprezzare, da Stan Getz a Herbie Mann, da Laurindo Almeida a Charlie Byrd. Il concerto finale conclude la parentesi “bossa nova” con la esibizione del trio di João Bosco, altro grandissimo interprete di quella musica, per poi tornare al jazz dei nostri giorni con la formazione guidata da John Patitucci, uno tra i musicisti di maggior richiamo, sia per il virtuosismo strumentale, sia per la concezione musicale.
Roberto Capasso
Pescara Jazz 92
EDDIE DANIELS & GARY BURTON
ARCHIE SHEPP QUARTET
DEE DEE BRIDGEWATER
JOHN PATITUTCCI