Festival Internazionale del Jazz
Edizione 2005
La storia del Pescara Jazz
Pescara Jazz 2005
La voce, la ritmica, lo Swing. L’edizione 2005 del festival di Pescara sembra allineare gli ingredienti fondamentali del jazz. Tutta la musica afroamericana, di qualsiasi genere e epoca, ha mescolato tecniche e sonorità di voce e strumenti: l’ugola di Ella Fitzgerald che imita un sax o una tromba, Louis Armstrong che fraseggia in scat prolungando le idee trombettistiche, il gorgoglio delle cantanti di blues che imitano i trombettisti di Ellington, che a loro volta piegavano lo strumento alle inflessioni della voce. E poi c’è tutto l’universo dei gruppi vocali, dai quartetti come i Mills Brothers che, solo con l’ausilio di una chitarra, evocavano mondi sonori inediti, al trio vocalese di Lambert, Hendricks & Ross, le cui voci ricalcavano gli assolo strumentali, ai Double Six de Paris che arrivavano a suggerire sonorità orchestrali. Oggi diversi gruppi lavorano con grandi risultati sul solco di quella lezione, dai non più giovani Manhattan Transfer a questo formidabile gruppo svedese, i Vocation, che al sestetto di solisti aggiungono un regolare gruppo jazz in cui spicca un sassofono, in un perfetto interscambio di ruoli solistici. Forse il tratto comune a tutte le esperienze vocali citate è il virtuosismo: non si possono affrontare simili imprese con la voce se non se ne ha un controllo totale e una duttilità d’uso superiori alla norma.
Ci sono poi casi in cui le capacità tecniche trascendono i limiti consueti e la dimensione solistica diventa l’unica possibile per il pieno dispiegarsi dell’espressione. Sono casi rarissimi e memorabili: Al Jarreau è uno di questi. La sua naturalezza nell’esplorare i limiti della voce è il risultato di un duro lavoro tecnico, ma nella sua musica, che contamina con grande facilità atmosfere del jazz e del pop, tale magistero è tutto al servizio dell’architettura sonora: per questo suona naturale, senza sforzo, pur rimanendo stupefacente. E infatti il segno della grande arte non ha niente a che fare con l’esibizionismo tecnico, ma è tutto nella capacità espressiva di inventare mondi nuovi: la tecnica migliore è quella che non si vede (o che non si sente).
È questo anche il segreto di Tony Bennett, uno dei più grandi crooner. Più vicino al jazz di Frank Sinatra, con un timbro più scuro, una voce piena e increspata, con un’eleganza di fraseggio insuperabile, Bennett è il più grande interprete vivente della canzone americana, quello straordinario repertorio che potremmo definire una sorta di liederistica contemporanea. I Gershwin, Porter, Berlin, Rodgers, Arlen hanno scritto capolavori di sottigliezza che richiedono interpreti della stessa portata: Bennett, le cui performances sono da sempre memorabili, giganteggia per personalità, acume, partecipazione, humor, senso dello spettacolo. E swing. Quello swing di cui l’orchestra di Count Basie è stata per più di cinquant’anni l’epitome, l’incarnazione più formidabile: un’intera orchestra che esprime un relax psicofisico contagioso, un senso della compattezza d’insieme che eccita, induce a danzare, un benessere persino esistenziale in quel fraseggio che “appoggia” le note con una precisione e una morbidezza divenute proverbiali. Basie è scomparso da molti anni, e con lui tutta una generazione di musicisti che hanno fatto grande la sua orchestra e il jazz tutto. Ma quello stile è divenuto segno universale, assimilato dai musicisti delle generazioni successive. L’orchestra di Basie aveva i suoi segreti di laboratorio, d’accordo, ma i segreti artigianali si tramandano. Ecco allora una compagine tutta nuova che ripropone con competenza, calore, passione quel repertorio: un segno che quella lezione è ancora viva.
Nel jazz la sezione ritmica è il vero motore dello swing, che può manifestarsi attraverso soluzioni stilistiche sempre diverse. In questo senso Billy Cobham e Roy Haynes sembrano molto lontani: Cobham è il maestro del jazz-rock più potente e agile, energico e trascinante, che torna con quel marchio Spectrum che fece la sua fortuna negli anni Settanta; Haynes invece, radicato nell’hard bop degli anni Sessanta, ma già proiettato in una complessità ritmica anticipatrice di soluzioni più libere, e che oggi si associa a giovani talenti da cui trae ispirazione e a cui dona saggezza e esperienza. Batteristi diversi, certo, ma entrambi legati ad una concezione dello strumento aperta, ricca, sfrangiata, attenta al colore quanto al fraseggio: batteria come primus inter pares piuttosto che gregario. Se la batteria è il motore, il contrabbasso è il cuore pulsante dello swing. Al punto che può reggere un’intera orchestra, come quella implacabile macchina ritmica che è l’orchestra di Dave Holland, il cui contrabbasso è il perno elastico attorno a cui ruota un sistema di riffs a piramide, ritmicamente complessi, dall’impatto trascinante, da cui emergono solisti bravissimi.
Il cuore armonico del jazz è invece una trama di accordi vibranti, seducenti e appassionatamente percussivi: è il pianoforte di McCoy Tyner, che negli anni Sessanta, a fianco di John Coltrane, ha creato un suono nuovo, un universo timbrico e armonico inedito, profondo e scintillante, ritmico e risonante, che ha influenzato una generazione di pianisti e a tutt’oggi continua a riservare sorprese. Infatti Tyner sta vivendo una seconda giovinezza, un ritorno di ispirazione che lo ha riportato a quei vertici del jazz dai quali ha diffuso una musica personale e trascinante, e che ora propone con inalterata energia con un formidabile gruppo di tutte stelle. E Pescara Jazz si chiude con una fantasmagorica ricchezza di colori che si trasformano in energia ritmica.
Stefano Zenni
Pescara Jazz 2005
AL JARREAU
THE COUNT BASIE ORCHESTRA
ROY HAYNES FOUNTAIN OF YOUTH
DAVE HOLLAND BIG BAND